Mr. Rock and Roll? Citofonare Alan Freed.

Esattamente come l’universo, i movimenti culturali, quelli che sconvolgono i canoni tradizionali, si espandono da un’iniziale situazione di estrema densità e calore e pretendere di stabilirne un preciso punto d’origine sembra essere un’impresa destinata a fallire di fronte a ipotesi mai definitivamente convincenti.


Il rock, inteso come il calderone nel quale mescolare tutte le espressioni musicali definite contemporanee e popolari o ancora meglio pop, non rappresenta certo un’eccezione e decretarne un inizio è impossibile, non fosse altro perché un principio certamente non esiste.

A livello strettamente musicale, molti dei canoni che si attribuiranno al rock and roll, sono già riscontrabili in brani del repertorio di musicisti Blues come Big Joe Turner, Country come Hank Williams , persino nel Gospel e nel Jazz ed è più vicino alla realtà sostenere che la combinazione di più ingredienti abbia dato forma ad un qualcosa in apparenza nuovo, ma che in realtà lo era soltanto in minima parte.
Ovviamente il merito di questo è da attribuire alla fervida creatività di quei musicisti che già negli anni quaranta avevano contribuito ad abbattere le barriere fra un genere e l’altro, ma ci fu una figura fondamentale come quella del Disc Jockey che anche se oggi è spesso apertamente detestata, ebbe un ruolo certamente primario nella diffusione di una musica nuova e che portava con se non soltanto un rinnovamento artistico ma anche la scintilla di una rivoluzione culturale che avrebbe messo in discussione le convinzioni di una società ottusamente conservatrice come quella degli Stati Uniti dell’epoca.

Come già detto, non è mia intenzione attribuire una svolta epocale, ad un solo fattore e ancor meno ad una sola persona, ma che l’abbattimento del muro che separava la presunta musica bianca da quella nera, sia stato un evento nodale, è fuori da ogni ragionevole dubbio così come il fatto che le intuizioni e la capacità di cogliere le opportunità di un giovane conduttore radiofonico che diffondeva la sua voce dalle frequenze dell’emittente WAKR di Akron e che rispondeva al nome di Alan Freed ne siano una primaria concausa.

A Salem Alan suonava il trombone nei Sultans of Swing, ma la nascente passione per la radio lo convinse ad abbandonare lo strumento e a far tesoro delle occasioni che gli si presentarono, prima all’Ohio State University e poi durante la sua permanenza nell’esercito statunitense durante la seconda guerra mondiale e che gli permisero dopo una discreta gavetta presso le piccole emittenti locali, di approdare alla già citata WAKR trasmettendo come di norma le rassicuranti melodie dei crooner amati dalla conservatrice borghesia bianca spingendosi al massimo alle più vivaci sonorità swing delle orchestre di Benny Goodman o di Glen Miller,  coltivando però dentro di se il desiderio di espandere la scaletta anche a generi più “pericolosi”, fortemente attratto dalla vivacità della musica nera e in particolare dalla carnalità del Rhythm and Blues.

Quando Leo Mintz proprietario del Mintz’s Record Rendez Vous di Cleveland, gli manifestò la sua intenzione di sponsorizzare un programma di Rhythm and Blues, insistendo sul fatto che ad acquistare i 45 giri di “race music” non erano soltanto, come prevedibile, gli afroamericani, ma anche moltissimi ragazzi bianchi sempre più attratti da quei ritmi, Alan si rivelò subito entusiasta all’idea di condurlo e messa da parte l’iniziale titubanza e vinta quella dei dirigenti dell’emittente, spaventati dalle reazioni che poteva suscitare la messa in onda di un repertorio del genere, nel luglio del 1951 esordì alla WJW con un programma notturno quasi interamente dedicato a quelle “nuove” sonorità, il Moondog Show.
Il trasporto con il quale Freed riempiva la sua eccentrica conduzione, durante la quale era sua abitudine lasciare aperto il microfono e partecipare attivamente allo show, tamburellando sul ritmo dei brani o incitando i musicisti, come se fosse lui a dirigerli, con i suoi “Aw, go!” e “Ho, now!”, estese la sua popolarità a un livello paragonabile e molto spesso superiore agli artisti dei quali trasmetteva le canzoni e l’uso di una sorta di slang giovanile lo fece entrare rapidamente in una particolare sintonia con il suo pubblico, formato perlopiù da adolescenti, che ascoltava il suo programma, ma veniva sopportato con un certo imbarazzo dall’impreparata dirigenza dell’emittente, dalla quale Alan pretendeva la totale libertà sulla scelta dei dischi da mandare in onda oltre che sulla conduzione del programma.
Non è da trascurare il fatto che il riconoscimento sociale della figura del teenager, facilitò l’affermazione di un nuovo settore dei consumi esplicitamente rivolto ai giovani e certamente i vertici delle etichette discografiche e i venditori di dischi videro nella diffusione radiofonica un’opportunità assolutamente da sfruttare, ma ogni medaglia ha il suo rovescio e in un sistema ancorato ad un’ottusa conservazione, un personaggio come Freed veniva considerato alla stregua di un untore, colpevole di appestare i suoi giovani ascoltatori, trasformandoli in sbandati o ancor peggio in veri e propri criminali.

Il successo di Freed, nonostante l’esplicita ostilità, pareva comunque inarrestabile ed erano molti i personaggi smaniosi di partecipare alla festa e tra questi Morris Levy sembrava il più determinato.
Morris Levy era il proprietario del “Birdland” celebre Jazz club di New York, nel quale però non era raro, assistere all’esibizione di musicisti rhythm and blues, quali ad esempio Jack Wilson and The Dominoes e sapeva bene che una maggiore esposizione degli artisti che calcavano le assi del palco del suo locale, ne avrebbero alzato il livello di popolarità.
Inoltre con i profitti del locale, Morris Levy, aveva anche fondato un’etichetta discografica, la “Roulette Records” e sapeva bene che la radio sarebbe stata un’ulteriore vetrina.
Quando Alan Freed, fece visita al Birdland, Levy non si fece scappare l’occasione di destinargli una serrata corte “professionale”, solleticando l’appetito del D.J. con l’idea di uno spettacolo dal vivo alla Cleveland Arena, che lui sarebbe stato in grado di finanziare e per il quale Alan avrebbe fornito la sua competenza artistica.
In verità Levy era un personaggio tutt’altro che trasparente e (anche se verranno dimostrati solo molti anni dopo) i suoi legami con la mafia della grande mela erano già noti e non stupisce di certo il fatto che il suo ambito d’interesse reale nel mondo della musica consistesse nei diritti d’autore che era riuscito a sottrarre ai musicisti che aveva sotto contratto, sfruttandone l’incompetenza finanziaria per poterne così incassare le royalties e ovviamente una notevole esposizione radiofonica e l’ipotesi di una grande esibizione dal vivo si rivelarono particolarmente allettanti.
L’ambizione aveva però reso moralmente cieco il buon Alan e nonostante gli avvertimenti di molte persone che lavoravano nel settore e le preoccupazioni della moglie, la collaborazione con il losco Levy diede i suoi primi frutti il 21 marzo 1952, quando la Cleveland Arena aprì i cancelli per il Moondog Coronation Ball.


Forse sarebbe esagerato fare un paragone tra quello che fondamentalmente potrebbe essere definita come qualcosa di simile ad una grande serata danzante e gli immensi festival che una quindicina di anni dopo riuniranno folle oceaniche, ma quel che è certo è che lo stesso terzetto si trovò impreparato quando la richiesta di biglietti si rivelò tre volte superiore alle ottomila unità che la Cleveland Arena era in grado di ricevere e fu proprio l’imprevisto successo a costringere gli stessi organizzatori, su sollecitazione dei vigili del fuoco, a interrompere e annullare l’evento già durante i primi minuti per evitare di trasformarlo in una potenziale tragedia.

Intanto alla radio, in quello che era ormai una sorta di habitat naturale, Freed continuava a programmare moltissimi dischi di rhythm and blues e ormai avvezzo all’uso di un linguaggio sempre molto incline allo “street talk”, utilizzava abitualmente la definizione “Rock and Roll” per rendere apparentemente meno evidente e quindi più accettabile la provenienza afroamericana di parte della musica che i giovani americani sembravano gradire senza che il colore della pelle dei musicisti potesse rivelarsi un ostacolo.
Il successo crescente della “race music”, convinse sempre più emittenti radiofoniche a inserirla nel proprio palinsesto, tramite programmi opportunamente concepiti e nell’estate del 1954 la WINS di New York, formalizzò l’ingaggio di Freed, una decisa apertura nei confronti dei gusti di un pubblico in parte diverso da quello abituale.
Alle orecchie delle classi borghesi, chiuse dentro ad una formalità autoimposta, le parole “rock and roll” apparvero come un’invenzione di Freed e lui vestì orgogliosamente i panni del “Re del Rock and Roll” qualche anno prima che lo stesso titolo venisse riconosciuto a un giovane cantante di Tupelo, ma in realtà il suo merito era semplicemente quello di averle raccolte dai marciapiedi delle periferie e tramite la radio averle scaraventate nelle case dei suoi ascoltatori, esattamente come fece con un certo tipo di musica che portò alla luce, strappandola dal buio nella quale la si voleva relegare.
Inoltre quelle due parole nascondevano significati per nulla accomodanti e in realtà non erano nient’altro che una maniera gergale usata tra gli afroamericani per definire una vivace sessualità
e che già in svariate forme avevano fatto la sua comparsa in molti dei brani che Freed era solito trasmettere, utile a camuffare tematiche che non era possibile affrontare in maniera esplicita e anche se l’allusività poteva sfuggire ai loro genitori, i giovani ascoltatori sapevano perfettamente di cosa si stava parlando in brani come “Good Rocking Tonight”, “Rock All Night Long” e “We’re Gonna Rock, We’re Gonna Roll”.
A rafforzare questa attribuita paternità, contribuì anche Louis T. Hardin, un musicista non vedente, personaggio eccentrico ma particolarmente talentuoso, che per circa trent’anni vagò per le strade di New York in abiti vichinghi con il nome di Moondog e che rivendicandone l’uso tramite una causa legale nei confronti di Freed, gli impedì di fatto di continuare ad usarlo per il suo programma, che fu prontamente rinominato come “Rock and Roll Party”.
Il “Vichingo di Manhattan” era anche l’autore di “Moondog’s Symphony ” singolare brano che fino ad allora aveva fatto da sigla al programma di Alan Freed e che ovviamente dovette essere sostituito.
La maggiore diffusione che un’emittente come la WINS era in grado di garantire, si rivelò però nuovamente un’arma a doppio taglio e il fatto che Freed occupasse una parte consistente del palinsesto e avesse ripreso con successo l’esperimento degli spettacoli dal vivo, da un lato ne aumentò in maniera esponenziale il successo, ma dall’altro fece si che di pari passo si moltiplicassero anche I suoi detrattori, che oltre al titolo di “istigatore della delinquenza giovanile” gli riconobbero, gridando allo scandalo, anche quello di “mescolatore di razze”.
Che il “neonato” Rock and Roll fosse ormai un affare economicamente appetibile è dimostrato dal fatto che nella seconda metà degli anni cinquanta ad interessarsi al fenomeno non erano più soltanto le radio e le case discografiche, ma anche il mondo del cinema si gettò nella mischia per partecipare alla festa con pellicole come “Rock Rock Rock” e “Rock Around The Clock”, nei quali Alan Freed recitava nella parte di se stesso o addirittura letteralmente incentrati sulla sua figura come “Mr. Rock and Roll” e “Don’t Knock The Rock”.
In televisione Freed esordì nel luglio del 1957 sulla ABC con il “Big Beat” e come nei suoi programmi radiofonici la musica era indistintamente quella di musicisti bianchi e neri, ma il programma venne
presto sospeso, in seguito alle proteste di un pubblico, evidentemente ancora troppo sordo per sentire il suono dei tempi che stavano cambiando, di fronte “all’insostenibile visione” del nero Frankie Lymon che ballava con una ragazza bianca.
L’assurda ostilità riservata ai musicisti neri, ma anche ai giovani bianchi, che nel ruolo di esecutori o di semplici ascoltatori dimostravano un interesse nei confronti di quello che ormai era per tutti il Rock and Roll, era un aspetto difficile da accettare e se a questo aggiungiamo che può apparire comprensibile che confrontarsi con una tale successo, potesse rendere difficile mantenere i piedi ben piantati a terra, potrebbe non stupire il fatto che Freed cominciò a non discernere più la figura dell’uomo da quello del paladino del Rock and Roll che gli veniva attribuita.
Inoltre il prezzo da pagare per un successo così accecante era una vita familiare che percorreva ad alta velocità la strada del fallimento, alimentando le cattive abitudine di Alan che sempre più facilmente trovava conforto davanti ad un bicchiere di qualche “medicina” ad alta gradazione e anche se probabilmente non sapremo mai quanto tutto questo sia stato determinante è comunque vero che il suo atteggiamento si fece sempre più conflittuale nei confronti di un sistema di cose che non era disposto ad accettare.
La data bostoniana del “Big Beat ” il tour che Alan stava portando in giro per gli Stati Uniti, è l’esempio più lampante di questo antagonismo e della sua tendenza alla provocazione .
Nella capitale del Massachusetts, metropoli conosciuta per una rigida austerità, la notizia dell’arrivo di Alan Freed e del suo “carrozzone di degenerati” aveva suscitato un certo clamore e i vertici cittadini si mossero, per difendersi da quella temibile minaccia organizzando un servizio d’ordine all’altezza.
Quando la polizia ordinò che le luci rimanessero accese , Freed impugnò il microfono e commentò:

“Sembra che la polizia non voglia che vi divertiate. Forza, festeggiamo!

I ragazzi reagirono, lasciando i loro posti a sedere, innescando così la reazione degli agenti e scatenando disordini che continuarono anche al di fuori della Boston Arena.
Per quanto, Freed fosse stato per diversi anni una gallina dalle uova d’oro, il suo manifestarsi apertamente come “nemico” di una mentalità segregazionista ma ancora fermamente radicata, lo rendevano un personaggio scomodo e sempre più difficile da gestire anche per chi pur avendone ospitato i programmi, probabilmente ne aveva sottovalutato le potenzialità, non cogliendo la portata della rivoluzione che stava maturando anche tramite le loro stesse frequenze.
Il fatto che durante le sue assenze, Freed venisse sostituito da un altro D.J. senza che il programma ne risentisse, dimostrò alla WINS che il pubblico voleva il Rock and Roll ma non necessariamente Freed e il direttorio dell’etichetta fu ben felice di liberarsi di un potenziale vaso di Pandora, quale Alan si stava rivelando.

Infatti il motivo principale che spinse il broadcast newyorkese a rinunciare alle sue prestazioni era in realtà una grande inchiesta giudiziara che sondando tutto il mondo dello spettacolo, stava coinvolgendo le radio e le televisioni , osservate a vista per l’abitudine di molti D.J.’s di accettare compensi dalle case discografiche per programmare i loro dischi.
Quando l’inchiesta raggiunse l’ufficio del Procuratore Distrettuale di New York, le emittenti e le case discografiche, nonostante fossero parte attiva in quel sistema che prenderà il nome di Payola (contrazione di Pay e Victrola, il vecchio fonografo prodotto dalla RCA), non si fecero scrupoli nel denunciare i D.J. che esse stesse avevano sovvenzionato, ricavandone in cambio l’immunità.

Anche lo scaltro Morris Levy, di fronte al rifiuto di Freed di firmare una dichiarazione nella quale negava di aver ricevuto soldi, non ebbe alcuna esitazione e denunciandolo riuscì a salvare se stesso e i suoi discutibili affari, continuando per il resto della sua esistenza ad incassare royalties pur non avendo mai scritto neanche una canzone e riuscendo addirittura a vincere una causa contro John Lennon negli anni settanta, costringendolo a pubblicare sull’album “Rock and Roll”, tre brani del “suo” catalogo, tra le quali “You Can’t Catch Me” di Chuck Berry, ovvero la canzone della quale “Come Together” venne ritenuta il plagio.
Coerentemente con la sua scelta di non dichiarare il falso, Freed si presentò davanti al Congresso ed espose dettagliatamente i suoi rapporti con il mondo discografico, negando però con decisione, di aver ricevuto tangenti, ribadendo che i regali che gli venivano corrisposti erano soltanto il compenso per le sue consulenze da esperto e per quanto questa giustificazione possa risultare poco credibile, Alan non smise mai di difendere la sua totale libertà nella scelta dei brani che trasmise nei suoi programmi.

Bannato dalla Grande Mela, Freed riparò a Los Angeles dove fu ingaggiato dalla KDAY, ma richiamato a New York poco tempo dopo, venne arrestato con l’accusa di aver ricevuto tangenti per centinaia di migliaia di dollari e anche se al suo ritorno davanti al microfono, Alan era apparentemente il solito grande appassionato intrattenitore, tutte le disavventure che si trovò ad affrontare (e che in un certo senso appaiono come il conto da pagare alla sua eccessiva ambizione) lo avevano totalmente sfiduciato e così quando nel 1963 si dichiarò colpevole di due dei novantanove casi di imputazione che gli venivano contestati, era ormai stremato e sempre più avviato sulla strada dell’autodistruzione con un biglietto di sola andata che lo portò a destino il 20 gennaio del 1965 ad appena 43 anni.
Nonostante tutto però la sua figura risentì comunque solo marginalmente della rovinosa caduta con la quale si era concluso il suo declino e sono stati moltissimi gli artisti che per mezzo delle loro canzoni ne hanno celebrato i meriti citandolo eplicitamente, da Marc Bolan con i T.Rex e la loro “Ballroom of Mars” ai Ramones in “Rock and Roll Radio”, fino a Neil Young che in “Payola Blues” lo riabilitò parzialmente per sputare il suo personale “j’accuse” nei confronti dell’industria discografica, ma se c’è un artista che ha fatto del “Rock and Roll” il tema di una consistente percentuale dei propri brani, questi è Ian Hunter che sia da solista che soprattutto con i Mott The Hopple ha citato chiaramente situazioni che è impossibile non ricondurre alla persona di Alan Freed e ai suoi spettacoli dal vivo e tra i quali certamente spiccano “The Golden Age of Rock and Roll” e “Cleveland Rocks”.
Ma forse la riprova definitiva di quanto negli Stati Uniti ad Alan Freed venga riconosciuto un ruolo di primaria importanza per l’evoluzione dei costumi di un paese sempre molto contraddittorio, è la scelta di erigere il “Rock and Roll Hall of Fame and Museum” a Cleveland, la città dalla quale un giovane speaker radiofonico, inizio ad erodere mattone per mattone, il muro che separava giovani con la stessa voglia di libertà e che di diverso avevano solo il colore della pelle e se dopo più di mezzo secolo, di quello stravagante Disc Jockey e della musica che spandeva nell’etere siamo ancora qui a parlarne, allora la frase con la quale Alan si congedò dalla sua esperienza newyorkese appare come una definitiva certezza:


“Rock and Roll is here to stay…”


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Fonti Iconografiche:

  1. http://www.rockmusictimeline.com/1950gallery.html
  2. https://whatilikeissounds.files.wordpress.com/2012/09/alan-freed.jpg
  3. http://media-cache-ak0.pinimg.com/736x/cd/70/e2/cd70e299b3f0588efcd6925da3ec54ea.jpg
  4. http://www.birdlandclub.com/wp-content/uploads/2013/12/birdlandstreet-1024×713.jpg
  5. http://media.cleveland.com/plain-dealer/photo/2012/03/moondog1jpg-232f6e2337f03886.jpg
  6. http://4.bp.blogspot.com/-ffUFWogWesI/T1FLoWgjLOI/AAAAAAAAG3U/LBEUfa3hxv8/s1600/Alan%2BFreed%252C%2BLarry%2BWilliams%252C%2BDee%2BJay%2BBen%2BDacosta%252C%2BBuddy%2BHolly.%2BSpet.%2B8%2B1957%2BNYC.jpg
  7. http://www.posterchild.com/ebay-store/bigbeat.gif
  8. http://www.rockmusictimeline.com/1950gallery.html
  9. http://www.alanfreed.com/photo-galleries/legacy-1965-present/
Moreno Viola Written by: