Nel 1962 Willie Dixon, fertile penna della Chess Records scrisse “You Can’t Judge a Book By Its Cover” fornendo a Bo Diddley, figura fondamentale per l’evoluzione del rock, uno dei suoi ultimi successi.
Effettivamente se avessi giudicato “Happy Trails” dalla sua copertina, questo disco sarebbe rimasto nella vaschetta per via di una certa avversione che nutro nei confronti dell’immaginario western, o più probabilmente avrebbe rimpinguato la discografia di un devoto di Morricone, che avrebbe trovato una soddisfazione solo parziale dall’ascolto del disco, o semplicemente quella di qualche appassionato di musica con meno pregiudizi di me. I Quicksilver Messenger Service sono una specie di segreto neanche tanto ben custodito, schiacciati tra il peso dei Grateful Dead da una parte e dei Jefferson Airplane dall’altra, i due grandi colossi della baia di San Franciso.
All’appuntamento con l’incisione del primo album i californiani arrivarono un po’ in ritardo rispetto ai loro presunti rivali a causa di una storia piuttosto travagliata; infatti se il merito della fondazione della band, è da attribuire anche al cantante Dino Valenti, alcuni problemi con la giustizia lo tennero lontano dal microfono per diversi anni, facendo si che il resto del gruppo prendesse le redini del gioco, allontanandosi progressivamente dalla ballata tipica dei pezzi del cantante per approdare in terre lontane dalla forma canzone.
All’alba del 1968 la band è formata dal chitarrista John Cipollina, dal suo secondo Gary Duncan, dal bassista David Freiberg e dal batterista Greg Elmore, ed è con questa formazione che il gruppo pubblicò il primo album, disco che risente ancora in maniera massiccia dell’influenza del cantante, ma almeno un paio di brani sono già indicativi, nonché bellissimi, della strada che di li a poco avrebbe intrapreso la band.
“Gold and Silver” con i suoi intrecci tra le due chitarre è già di per se un primo indizio del tentativo della band di abbattere il confine della canzone in senso stretto per esplorare se non proprio dal punto di vista armonico di sicuro da quello puramente intenzionale, la libertà espressiva delle jam tipiche del jazz e forse non è un caso che il brano richiami neanche tanto vagamente quella “Take 5” resa celebre da Dave Brubeck e da alcuni ne sia addirittura considerata una personale interpretazione.
Allo stesso modo la lunga “The Fool” esplora la stessa libertà su un tema più delicato e lo scambio melodico tra le due chitarre aggiunta alla prestazione della dotata sezione ritmica è un perfetto connubio di feeling e competenza esecutiva ai tempi forse ineguagliata. L’arrangiamento con l’aggiunta di un bel violino e di un pregevole lavoro di commento percussivo consegna ai posteri un brano dove la creatività della band raggiunge livelli altissimi, e mi spingo a dire che certe trovate di questo brano si risentiranno anche nello stile di Robert Fripp e compagni, qualche anno dopo.
Il resto dell’album raccoglie le gradevoli “Pride of Man”, “Light Your Windows”, “Dino’s Song”, celebre per una bella versione al Monterey Pop Festival, e “It’s Been Too Long”, validi esempi della buona vena compositiva della band ma niente a che vedere con i due brani già citati, prova del fatto che la band funzionò al meglio quando furono le chitarre acide di Cipollina e Duncan a farla da padrone.
Di certo questo non sarebbe bastato a guadagnarsi un capitolo nel grande librone della storia del rock ‘n’roll, ma nella primavera del 1969 il gruppo pubblicò quello che al vaglio della storia stessa, può a ragion veduta essere considerato un vero e proprio capolavoro, sintesi perfetta o quasi tra la libertà espressiva dell’improvvisazione e il ritorno in rifugi sicuri, quindi al blues e al rock’n’roll , pur senza mai ricorrere alla ripetizione di cose già sentite. Proprio come era tipico nel jazz, la band parte da un tema conosciuto, quello di “Who Do You Love” del già citato Bo Diddley, per intraprendere poi una jam dove i contorni dell’immagine del brano stesso diventano sempre più sfocati fino a quando del pezzo originale rimane solo il titolo e quella manciata di minuti si trasformano in una serie di movimenti che danno vita a una jam di quasi mezz’ora che occupa tutto il primo lato del disco, dove il ruolo della chitarra di John Cipollina è fondamentale, in un susseguirsi ininterrotto di eventi musicali e in un continuo alternarsi di climi diversi che dimostrano la versatilità eccezionale della band oltre al notevole affiatamento.
Sul lato lato B ritroviamo lo schema con il quale la band ha maggior confidenza, e l’inizio con “Mona” un altro classico di Bo Diddley è in realtà la rampa di lancio per una nuova jam, divisa essenzialmente in tre fasi che partono dalla seconda metà del brano iniziale per sfociare nelle atmosfere più cupe della successiva “Maiden of the Cancer Moon” breve intermezzo che introduce la lunga “Calvary”, vera deriva psichedelica dell’album, un brano che avrebbe ricompensato la pazienza e le apparentemente mal riposte aspettative del nostro devoto morriconiano citato all’inizio dell’articolo.
Il brano in questione è infatti lo sviluppo di un tema che evoca molto le atmosfere tipiche degli spaghetti western commentati spesso dalla poetica musicale di Ennio Morricone.
Certo il gruppo fugge velocemente da questi “luoghi” musicali, percorrendo sentieri che riportano il pezzo lontano da cactus e palle di fieno che rotolano al soffiare del vento caldo del deserto, per raggiungere rapidamente il clima tipico della bay area di San Francisco, alternando in modo piuttosto disinvolto, umori mariachi e flamenco, e soluzioni musicali che solo un biennio più tardi avrebbero trovato piena applicazione nel dark sound, per approdare a un atmosfera (tra l’altro anticipandola di molto in considerazione anche di una tecnologia meno evoluta), che sarà la base della ricerca sullo strumento come creatore di paesaggi sonori, tipica di un genere come lo shoegaze che vedrà la sua nascita e il suo momento di massimo splendore solo molti anni dopo.
Oltre all’oggettivo valore dell’album, un altro grande merito della band è quello di essere riuscita a riportare su disco quello che è stato il grande limite dell’acid rock e cioè la difficoltà di incidere su vinile l’atmosfera dell’esibizione dal vivo.
Il disco raccoglie infatti parte delle loro performance al Filmore East e al Filmore West, e non è chiarissimo se si tratti di un’unica registrazione o di un abilissimo cut-up di più esibizioni, come è altrettanto incerto se la band e Cipollina in particolare abbiano ritoccato in studio qualche imperfezione.
All’indomani di quest’album, la carriera della band si avvierà verso un rapido declino in primis qualitativo, segnato però anche da malumori tra i componenti che portarono a numerosi cambi di formazione e all’inevitabile scioglimento.
Ciò nonostante, con l’inserimento in formazione del “sesto” Stones, il tastierista Nicky Hopkins entrato a colmare il vuoto lasciato dal momentaneo allontanamento volontario di Gary Duncan, il gruppo pubblicò l’ottimo “Shady Grove” per poi allargare la formazione con il ritorno di Duncan e soprattutto dell’originario fondatore Dino Valenti e tornare alla forma più congeniale al cantante con risultati se non proprio pessimi di sicuro poco entusiasmanti.
La carriera di John Cipollina, proseguì con la formazione dei Copperhead e nonostante uno scarso riscontro commerciale, la continuità a livello qualitativo, aumenterà la stima nei suoi confronti al punto tale che nel 1975 la band gallese dei Man, lo coinvolse in un’esibizione dal vivo, successivamente pubblicata nello splendido “Maximum Darkness”, praticamente un viaggio a ritroso nel periodo d’oro dei Quicksilver Messenger Service, ponendo in copertina un primissimo piano delle sue mani sulla sua SG. Inoltre collaborò con Nick Gravenites, coproduttore dell’esordio dei Quicksilver ed ex membro della Paul Batterfield Blues Band e degli Electric Flag, fautori di sonorità per certi versi simili al gruppo di “Happy Trails” e successivamente sostituto di Janis Joplin nei Big Brothers and The Holding Company, ma il numero delle partecipazioni di Cipollina come musicista di studio o come collaboratore è veramente elevato.
Il 29 maggio del 1989 lasciò questo mondo portato via da un’enfisema polmonare, pochi giorni dopo aver rilasciato un’intervista al magazine underground “Terrascope” nella quale si esprimeva sugli anni trascorsi con i Quicksilver Messenger Service dicendo:
“Ho trascorso un buon periodo, ma credo che la band non abbia mai espresso tutto il suo potenziale. Eravamo piuttosto scadenti in studio, ma dal vivo eravamo una bomba. Guardando indietro noi non facemmo molti tour. Avremmo potuto evolverci maggiormente se ne avessimo fatti di più. Fondamentalmente componevamo i nostri arrangiamenti sul palco. Eravamo uno strano gruppo.”
John Cipollina rimane sicuramente un chitarrista di culto ma non così sconosciuto come potrebbe sembrare. Già nel 1973 la rivista “Guitar Player” gli dedicò la copertina del numero del primo bimestre titolando “John Cipollina – A Rock Giant” e più recentemente la rivista “Rolling Stone” lo ha inserito al trentaduesimo posto nella sua (mi si perdoni) inutile classifica dei migliori chitarristi di sempre, dimostrando come almeno negli Stati Uniti il suo nome continui ad avere una certa risonanza.
Di sicuro l’appartenenza a quella che lui stesso definiva “una famiglia musicale”, deve aver contribuito ad instillare nel giovane John, la passione per la musica.
Fu la madre cantante lirica con il supporto del pianista Josè Iturbi, ad avviare Cipollina allo studio del pianoforte,già in tenerissima età, ma dovette arrendersi di fronte alla forte attrazione di John per la chitarra e soprattutto per musicisti come Link Wray, Scotty Moore e James Burton che pochissimo avevano da spartire con la formazione accademica alla quale la donna aspirava.
Si nota come questo ampio bagaglio formativo abbia influito sul suo stile dove confluivano il rock and roll, il blues e il jazz, ma anche forti richiami ad esempio al folclore ispanico o alla musica classica.
Come quasi tutti i chitarristi, ha utilizzato diversi strumenti ma quello che si identifica con lui è sicuramente la sua Gibson SG del 1959, personalizzata con particolare decori sul body ricavati sagomando il battipenna nero e con la sostituzione del ponte originale con un vistosissimo Bigsby Tailpiece. Al manico originale aggiunse intarsi in madreperla sui tasti sui quali non esistevano segnatasti ulteriori e sostituì le meccaniche con delle Grover Imperial Deluxe. Un altro dettaglio meno visibile rendeva ulteriormente originale la sua chitarra: quattro monetine (o forse semplici medagliette), con l’effige di Mercurio, fissate alle manopole dei toni e del volume. Ma la vera particolarità era apprezzabile soltanto all’ascolto. Cipollina utilizzava su questa e su tutte le chitarre che suonerà in seguito, un particolare sistema di cablaggio dei pick up, che gli permetteva di separare il segnale proveniente dal magnete al manico da quello proveniente dal magnete al ponte, amplificandoli in questo modo in maniera diversa.
Riguardo al suo sistema di amplificazione, credo che il valore di Cipollina quale sperimentatore e innovatore sia decisamente sottostimato. L’urgenza con la quale il chitarrista dei Quicksilver andava alla disperata ricerca di un suono personale era, a quei tempi, paragonabile solo a un genio, comunque inarrivabile come Jimi Hendrix. Per lui non si trattò solo di provare amplificatori diversi, ma durante la sua permanenza nei Quicksilver Messenger Service, edificò letteralmente un impianto del tutto originale, con lo scopo di riempire in maniera ottimale tutto lo spettro di frequenze emesse dal suo strumento.
Il sistema comprendeva, due Standel “The Artist”, amplificatori combo a stato solido nati in realtà per basso dotati di due coni da 15” ciascuno, posti alla base a sostenere un Fender Twin Reverb combo con i suoi due coni da 12”, e sulla cima del totem una testata Fender Dual Showman collegato a sei trombe Wurlitzer.
Il cablaggio particolare dell’elettronica della chitarra serviva a inviare ai due Standel il segnale proveniente dal pick up al manico e ai due Fender quello proveniente dal pickup al ponte. Anche il parco effetti era piuttosto innovativo e comprendeva, un riverbero Standel “Modulux”, un delay a nastro Astro “Echoplex”, gestiti tramite un footswitch appositamente costruito da Dan Healy, futuro ingegnere del suono dei Grateful Dead , che gli permetteva di selezionare uno dei due effetti, oltre ad attivare il riverbero e il tremolo del Twin Reverb o ancora inviare il segnale alle trombe sulla cima dello stack. A questi vanno aggiunti un Wah Vox, un Volume Pedal ancora Vox e un Maestro Phase Shifter. Come già detto, la sua carriera proseguì all’insegna della passione in un’infinità di progetti ma con riscontri commerciali molto contenuti, e il suo nome e quello del gruppo, finirono per essere associati quasi esclusivamente alla scena di San Francisco, chiamati addirittura a dividere con Jerry Garcia e i Grateful Dead, la rappresentanza dell’intera scena, finendo per essere considerato un simbolo di un passato ormai remoto e di una mentalità che non trova grande accoglienza nel rock di oggi più votato ad aspetti legati alla tecnica, quando non al virtuosismo vero e proprio.
Normalmente non condivido l’opinione secondo la quale quel determinato musicista è stato sfortunato e avrebbe meritato più di quell’altro che invece conoscono tutti, e credo che in ambito musicale, almeno fino a buona parte degli anni settanta, chi “ce l’ha fatta” debba ringraziare per lo più se stesso e la propria determinazione a lavorare duramente per raggiungere un obbiettivo, ma come per tutte le regole anche in questo caso ci sono delle eccezioni e credo che Cipollina abbia raccolto molto meno di quanto meritasse.
I motivi possono essere molti ma forse semplicemente non gli importava nient’altro che suonare e gli ingranaggi del music business erano qualcosa troppo al di fuori del suo mondo.
Resta il fatto che pur se in maniera piuttosto sotteranea il suo nome ha continuato a essere citato da molti aspiranti chitarristi o da semplici appassionati di musica, che ne hanno così tenuto vivo il ricordo, tanto da spingere la “Rock and Roll Hall of Fame” ad esporre in una teca a lui dedicata, l’intera strumentazione usata nel periodo trascorso nei Quicksilver Messenger Service, concedendogli almeno questo piccolo ma meritato tributo.
Per partecipare alla discussione, vi lascio il link al FORUM.